Il linguaggio e le brutte parole secondo Pier Paolo Capovilla

di Redazione Picenotime

sabato 12 dicembre 2015

Sabato 5 Dicembre 2015 in occasione della Tempesta al Rivolta (VE) e con la scusa di dover realizzare un’inchiesta per un corso universitario, ho avuto il piacere di intervistare Pier Paolo Capovilla, cantante del gruppo rock italiano “Il Teatro degli Orrori” prima che salisse sul palco.

Mi accoglie con una forte stretta di mano, mi chiede di dargli del tu e mi offre un bicchiere di vino. L’argomento principale è stato quello delle “brutte parole”, dell’utilizzo mediatico e non del turpiloquio e di come la lettura sia una fonte inestimabile di cultura, cultura che Capovilla dimostra, ancora una volta, di possedere.


Politica e tv che, banalmente parlando, rappresentano il nostro Paese, si mostrano sempre più volgari e avvezze all’utilizzo del turpiloquio. Entrambe hanno lo scopo di incitare gli istinti delle folle per ottenere, da una parte, consenso politico e, dall’altra, una maggiore audience. Da questo, secondo te, possiamo concludere che le brutte parole sono un prodotto della società di massa?


«Certo, non potrebbe non essere una conseguenza del fatto che viviamo in una società di massa. Però mi viene spontanea una considerazione: io credo che il vocabolario che viene usato in televisione corrisponda in qualche misura, anzi in una buona misura, a quello che viene usato nella vita comune della gente. Chi partecipa al talk show e va a dire un sacco di parolacce, è cosciente che lo sta facendo. Ricordo che iniziò Sgarbi e poi questa moda ha dilagato. Il turpiloquio è il risultato dell’impoverimento del linguaggio. Se, ad esempio, devo interloquire con la Santanchè invece che dirle “mi hai rotto i c******i”, posso dirle “mi hai spazientito”, posso parafrasare. Chi va in tv non si preoccupa di usare un vocabolario più alto e quindi più ricco e si esprime in maniera plebea in modo da sentirsi più vicino al popolo e più rappresentativo. Il popolo percepisce chi è più simile a lui. Se sono ignorante, voglio un ignorante che mi vada a rappresentare. È venuta a mancare l’ammirazione da parte del popolo nei confronti degli intellettuali».


Quindi il popolo si sente libero di dare sfogo e ostentare la propria interiorità come conseguenza di questi “modelli mediatici”?


«Immagino che si verifichi un processo dialettico tra media e società reale, uno imita l’altro. I media devono vendere e vendono tutto. È un prodotto informativo e lo chiamano “infotainment”, a metà strada tra informazione e intrattenimento. C’è sempre un messaggio da voler trasmettere». 


C’è ancora una percezione del turpiloquio o è scattato una sorta di automatismo della coscienza secondo il quale non è più presente una ricerca della giusta parola o di un linguaggio consono perché tanto ci puoi mettere il “c***o” in mezzo?


«Sì, è un automatismo, lo faccio anche io se voglio sottolineare un mio punto di vista e renderlo più efficace».


Ti succede solo nel privato o anche in pubblico?


«Lo faccio anche in pubblico, mi succede spesso. Sono anche io vittima di questo sistema, potrei esprimermi in un modo più elegante o libresco, ma per essere più vicino a chi mi ascolta cerco di usare parole più urbane, più frequenti».


E in ambienti più colti?


«Se i miei interlocutori sono più cosmopoliti riesco ad esprimermi come loro. È un processo dialettico, dialettica nel senso marxiano del termine. Cosa succede tra struttura e sovrastruttura? Se, ad esempio, la struttura è quella economica e dobbiamo vendere e la sovrastruttura è la cultura, la musica, l’arte, la religione, in quel rapporto lì abbiamo l’impoverimento del linguaggio. È talmente drammatico che alla fine non riusciamo più a dire le cose. Un impoverimento lo troviamo nella musica leggera; qui raggiunge cime sublimi di ignoranza e qualunquismo. Impoverendo il vocabolario, si impoverisce il contenuto, arrivando a dire cose insensate, basta che suonino bene».


Invece dal punto di vista letterario o artistico, giustifichi l’uso del turpiloquio? So che ti piace Pasolini e saprai che è stato processato diverse volte e, spesso, i capi d’imputazione si riferivano, anche se erroneamente, al turpiloquio.


«I processi che ha subito Pasolini sono stati processi da parte di fascisti che percepirono nell’opera del poeta il vilipendio della nazione. Non a caso, vinse tutte le cause e gli fecero perdere un sacco di tempo». 


Infatti in “Ragazzi di vita” si giustificò sostenendo che voleva riportare la lingua parlata del volgo romano.


«Allora, Pasolini in “Ragazzi di vita” e “Una vita violenta” fece un’indagine sulla lingua parlata nella scrittura ed è un processo complesso e bisogna saperlo e volerlo fare bene. E ci riuscì alla grande, arricchendo il linguaggio. Le parolacce pronunciate da un poeta nella pratica della verità servono e diventano persino cruciali e preziose perché si trovano in un contesto narrativo che non ha nulla a che vedere con l’interlocuzione sociale, politica o mediatica dovuta al vendere e al comprare. Non siamo nel commercio della parola, così come accade in tv, dove assistiamo a un mercimonio del nostro vocabolario. Nella poesia, quando è poesia e non è il primo cialtrone di turno, questo non avviene».


Ti ritrovi quindi nel pensiero di Carlo Porta, secondo il quale ci sono linguaggi belli e brutti a seconda della maestria di chi li utilizza?


«Certo. Io ti posso dire una parolaccia e può significare il contrario di se stessa». (Mi esplicita il concetto, rivolgendomi una parolaccia in tono serio e, sempre la stessa, in tono amichevole e scherzoso). «Abbiamo un simbolo e quello è il significante. Il significato del significante non può dipendere solo da quest’ultimo. Il significante non è univoco».


Beh certamente, il significante è la successione fonica e il significato l’immagine mentale.


«Esatto, nell’enunciazione del significante scopriremo il significato, anche a seconda del…». (Chiede aiuto ad un suo amico, presente nella stanza). «Del contesto», afferma l’amico.

 

Del resto dal contesto dipende l’atto comunicativo.


«Sì, Pasolini quando andava in tv non si sentiva libero di dire la verità perché il mezzo sarebbe prevalso sul contenuto del suo discorso. Ecco che il significante prende il sopravvento sul significato e, la spingo fino all’estremo, abbiamo l’impoverimento del linguaggio».


Segue poi una breve digressione in cui Capovilla accenna alla scarsa abilità del popolo italiano nell’interpretare un testo e al conseguente “analfabetismo funzionale” che si manifesta in ogni azione quotidiana, dal premere il giusto tasto nel treno per l’apertura delle porte alla lettura dell’orario dell’autobus. Mi racconta, a tal proposito, alcuni aneddoti. 

Siamo quasi alla fine. Pochi giorni fa mi è capitato di leggere uno degli ultimi comunicati stampa dell’Associazione Italiana Editori e ne ho appreso che il 39, 1% degli imprenditori italiani non legge nemmeno un libro all’anno.


«Eh, non c’hanno tempo».


Giusto, “lavorare stanca”.


«Lavorare uccide e uccide anche la curiosità delle persone».


Quanto è importante leggere e quanto la lettura contribuisce alla formazione di un vocabolario personale?


«Tantissimo e la mancata lettura è una delle ragioni cruciali per l’impoverimento del linguaggio».


C’è differenza tra donne e uomini nell’uso del turpiloquio e, per estensione, della bestemmia?


«È chiaro che c’è. A Venezia, ad esempio, tante donne bestemmiano. Vivo a Venezia da trent’anni e mi sento parte del consorzio veneziano, dove si fa grande uso del turpiloquio e della bestemmia che, però, vengono utilizzati a cuor leggero, senza percepire alcuna offesa. Assumono una funzione sociale positiva e c’è dell’ironia in essi. L’ironia è importantissima per sdrammatizzare i conflitti. Come sostiene Slavoj Žižek, il più grande filosofo marxista vivente, la barzelletta razzista è fondamentale per la convivenza con le altre etnie. Pensaci, di cosa ridi? Ridi della stupidità del razzismo, ridi perché è ridicolo e provoca ilarità proprio perché non ha senso. E la stessa cosa vale per le parolacce a Venezia. In tv cambia il contesto e cambia, di conseguenza, anche la funzione delle parole».


Grazie mille e in bocca al lupo per il concerto.


«Di nulla, crepi il lupo».


Pier Paolo Capovilla

Pier Paolo Capovilla

© Riproduzione riservata

Commenti

PaoloC
sabato 12 dicembre 2015

Grande CAPOVILLA, un personaggio che ha sempre un punto di vista particolare, da ascoltare e su cui riflettere. Eppoi la musica che ha fatto (ONE DIMENSIONAL MAN) e quella che fa (IL TEATRO DEGLI ORRORI) mi piace tutta ! ! !


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