Il mondo a colori (o quasi) di Aristotele - Parte 2
di Redazione Picenotime
martedì 19 novembre 2013
Seconda parte di "Il mondo a colori (o quasi) di Aristotele",
racconto a puntate scritto dalla nostra collaboratrice Valeria Lelli che
ci riporta ai difficili anni della Seconda Guerra Mondiale, con tanti
spunti di riflessione e parole che toccano l'animo.
Martedì prossimo pubblicheremo la terza parte, buona lettura!
"Mamma, scusa se non son salita subito ma mi ero addormentata sul prat...”
Lei
mi interruppe senza nemmeno guardarmi in faccia: “Nathania per favore,
vai in camera”. “Ma mamma: che ho fatto!?” – Venni fulminata sia da mia
madre che da mia sorella più grande. Andai in camera pensando al fatto
che mi continuavano a trattare come se fossi ancora un’adolescente. In
camera provai a chiamare Ruben, ma non rispose. Continuai a cercarlo per
tre giorni consecutivi ma ad ogni telefonata la sua mamma mi attaccava
il telefono. Che senso aveva un comportamento simile? Presto però arrivò
la risposta a tutte quelle domande che non mi davano pace giorno e
notte. Mia madre, mia sorella Rachele, io e Aristotele fummo trasferiti
nel ghetto. Improvvisamente tedeschi ed ebrei non potevano più avere
contatti, soprattutto se eri il figlio di una famiglia benestante
tedesca e tuo padre un noto generale tedesco. Fu una risposta amara che
soprattutto non compresi mai. E una persona così fedele alla logica come
me non riusciva davvero a dare un senso a tali eventi. Orgoglioso come
era mio padre chissà se l’avrebbe accettata una situazione simile. Lui
ci aveva lasciate qualche anno prima, dopo aver combattuto contro una
malattia che fu più forte della sua volontà di vivere.
Al ghetto
mamma faceva finta che andasse tutto bene; mi voleva far credere che in
realtà non sarebbe cambiato nulla. Cercava di proteggermi anche dai
pensieri, era evidente, e questo mi commuoveva molto. Io, a mia volta,
le facevo credere che non avevo turbamenti di alcun tipo. E così andava
avanti questo teatrino dinanzi a Rachele che ogni mattina si svegliava
con gli occhi sempre più gonfi dal pianto. I miei occhi invece venivano
nascosti da spesse lenti dovute ad una forte miopia che avevo ereditato
da mio padre. Dietro quelle lenti nascondevo le occhiaie, figlie di
angosce notturne che mi davano il tormento.
Le giornate si
somigliavano un po’ tutte: nel ghetto si sopravviveva e basta. Non era
vita, la vita era ben altra cosa. La vita era altrove. Si diceva nel
ghetto che se eri lì non ti era andata così male...
Clicca qui per leggere la prima parte del racconto
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