Il mondo a colori (o quasi) di Aristotele - Parte 3
di Redazione Picenotime
martedì 26 novembre 2013
Terza parte di "Il mondo a colori (o quasi) di Aristotele", racconto a puntate scritto dalla nostra collaboratrice Valeria Lelli che ci riporta ai difficili anni della Seconda Guerra Mondiale, con tanti spunti di riflessione e parole che toccano l'animo.
Martedì prossimo pubblicheremo la quarta parte, buona lettura!
Si parlava di campi in cui venivamo deportati noi ebrei a lavorare. Le notizie erano sempre confuse, mai precise, così anche le mie speranze non avevano contorni ben definiti. Non sapevo se sperare di rimanere al ghetto o di essere mandata nei campi. Purtroppo, in quel momento, per noi ebrei non c’erano alternative di nessun altro tipo. Così non mi rimaneva che sperare di rimanere unita con la mia famiglia e Aristotele che consideravo davvero un membro della famiglia. Forse perché me lo regalarono alla morte di mio padre, pensando che avrebbe alleviato la sua mancanza. Durante quelle notti sudice e appiccicose, in cui perfino i pensieri si attaccavano l’uno all’altro diventando un pensiero solo e sentivo che stavo per diventare matta… ecco, durante quelle notti lì io pregavo che esistesse un Dio e che ci aiutasse a uscire da quella situazione oltre ogni comprensione umana. Alzavo gli occhi al cielo e guardavo la stella più brillante, era mio padre per me… così gli mandavo un bacio e speravo, non so cosa speravo. Sicuramente speravo che tutto finisse presto.
Una mattina, all’alba, arrivarono tre tedeschi in divisa: uno di questi era Ruben.
Ero giovane e sfrontata. Soprattutto avevo la presunzione di sapere che quello che ci stava capitando non era giusto. Molti nel ghetto provavano vergogna, vergogna del trattamento che ci stavano riservando, vergogna di essere ebrei. Io la vergogna nel ghetto non riuscivo a provarla, nel ghetto il sentimento che prevaleva in me era la rabbia. Così come vidi Ruben lo guardai con gli occhi pieni di rabbia e indignazione. I suoi erano belli, limpidi come li ricordavo ed ora erano anche terrorizzati. Avrei voluto accarezzarli quegli occhi; poi pensai che gli occhi sono l’unica parte del corpo che non si può accarezzare senza arrecare dolore. In quel dialogo muto tra di noi io sembravo il carnefice e lui la vittima. Ma in realtà eravamo entrambi due vittime di un sistema forse più grande di ogni sentimento d’amore...
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