Il mondo a colori (o quasi) di Aristotele - Parte 5
di Redazione Picenotime
martedì 10 dicembre 2013
Quinta parte di "Il mondo a colori (o quasi) di Aristotele", racconto a puntate scritto dalla nostra collaboratrice Valeria Lelli che ci riporta ai difficili anni della Seconda Guerra Mondiale, con tanti spunti di riflessione e parole che toccano l'animo.
Martedì prossimo pubblicheremo la sesta parte, buona lettura!
Il treno partì. Le palpebre erano pesanti, il tanfo che iniziava a sentirsi nel vagone era insopportabile. Le lenti degli occhiali, con l’umido calore del vagone, si erano completamente appannate. Ogni volto, ogni cosa per me erano come avvolti nella nebbia. Intuivo però che gli occhi dolci del mio cane mi stavano guardando. Passai il viaggio in un dormiveglia estenuante. Mi dividevo tra la stanchezza e la paura che mi portassero di nuovo via il cane. A tratti pensavo a Ruben e avrei voluto gettare il pensiero di lui fuori dal vagone. A volte è necessario prendere i propri pensieri, tirarli fuori dalla mente e buttarli fuori dalla finestra. Quando ero a casa facevo così: mi affacciavo dalla finestra della mia cameretta, pensavo intensamente al pensiero che mi dava il tormento e lo buttavo di sotto. Così uccidevo i pensieri; era un omicidio di pensieri che spesso non tornavano più. Nel vagone avrei voluto fare la stessa cosa, soprattutto quando pensavo a Ruben. Ma i pensieri da quei piccoli buchetti del vagone non riuscivano a passare, così restavano lì: tutti insieme nella mia testa. Ero come in una specie di limbo, in attesa di qualcosa che stava per capitare.
Il treno si fermò di colpo facendomi sbattere la testa sulle pareti del vagone. I pensieri che fino a quel momento erano lì si sparpagliarono come dei soldati di fronte ad un nemico così forte da non aver il coraggio di combatterlo: eravamo a Birkenau. Uno dei campi di concentramento di cui sentivamo parlare così tanto nel ghetto.
Era ormai notte fonda. Mi separarono da mia madre e mia sorella e ci accompagnarono nei rispettivi dormitori spiegandoci qualche semplice regola. Per esempio: di non allontanarci per nessun motivo dal dormitorio se non negli orari prestabiliti per il lavoro. Il cibo era un’utopia. Si mangiava quando si poteva e quello che si poteva. Il mio pane lo dividevo con Aristotele nel dormitorio. Mi ero posizionata in un giaciglio della parte più alta del dormitorio, proprio quella dove nessuno voleva stare perché troppo stretta e se ti svegliavi di soprassalto per qualche incubo (cosa che lì non accadeva di rado) maledivi il giorno che avevi scelto quella posizione. Poi ti ricordavi che se avevi ancora il privilegio di maledire un giorno potevi ritenerti ancora fortunato, forse. E poi io quel posto lo avevo scelto per non permettere al mio cane di uscire dal dormitorio.
Ogni mattina ci svegliavano all’alba per andare a lavorare; era come una catena di montaggio. Ognuna di noi aveva un compito: io dovevo portare dei massi da un punto all’altro, solo quello. Tutto il giorno, solo quello. I massi non erano troppo pesanti, ma farlo tutto il giorno mi faceva arrivare a fine giornata con la schiena che urlava dal dolore. La sera mi rannicchiavo attorno al mio cane e lo abbracciavo. Lui mi leccava tutta la faccia... e in quel momento, dentro una potentissima memoria involontaria, mi sentivo a casa. Gli davo l’acqua, il pane e quando andava bene anche un po’ di patate. Piangevo un po’ ogni sera e lui leccava il mio volto emaciato dalla fame e dal dolore. Nel dormitorio accanto al mio c’erano mia madre e mia sorella. A volte capitava di incontrarci, di guardarci e anche di sorridere. Forse erano gli unici momenti in cui mi capitava di sorridere. Perché quando guardavo loro la mia memoria tornava ai tempi felici e spensierati ai quali allora nemmeno davo importanza. E pensare che mi lamentavo per ogni piccola cosa. Solo ora che sembrano perduti sento la loro importanza, il loro autentico significato, e se potessi tornare indietro litigherei di meno con la mia famiglia e li abbraccerei di più...
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