“Le voci di dentro”, un immenso Toni Servillo al Teatro dell'Aquila
di Redazione Picenotime
sabato 02 novembre 2013
Ho sempre pensato che le opere di Eduardo De Filippo e i personaggi che nascevano su di lui potessero vivere solo attraverso il suo scarno volto. E che mai nessuno sarebbe potuto diventare un suo personaggio senza in qualche modo togliergli qualcosa. Un’interpretazione può essere ben fatta ma può non farci arrivare, come magari era stato ideato, quel personaggio. Un po’ come le canzoni di De Andrè che quando viene cantato da altri interpreti perdono quel quid impalpabile, indicibile e che pure viene perduto. Insomma, i personaggi interpretati da quel corpo etereo di Eduardo lasciavano delle tracce così impresse sulla scena, nelle menti, nei cuori da non riuscire quasi ad immaginare altri attori al di fuori di lui, nelle sue opere.
Eppure all’apertura della stagione di prosa del Teatro dell’Aquila di Fermo, dopo aver visto Toni Servillo (nei panni di Alberto Saporito), quasi con commozione sento di poter affermare che i personaggi di Eduardo con Servillo riprendono vita senza perdere assolutamente nulla. Anzi, acquistando nuovi sensi, nuove espressioni, un nuova “voce”. "Le voci di dentro" è una commedia in tre atti di Eduardo De Filippo composta nel 1948.
Quando Servillo è sulla scena è lui che conduce il “gioco”; nonostante la grande bravura degli altri interpreti l’attenzione quando c’è lui è canalizzata su di lui, non riesci a guardare altro. La scena è una sinfonia. Toni dà la nota e gli altri reagiscono organicamente ai suoi impulsi. Alberto Saporito grida, si stupisce, si confonde e ci fa ridere di gusto anche con un lieve movimento del sopracciglio, ferendoci poi con uno sguardo.
Da menzionare a parte, con grande piacere, Peppe Servillo che interpreta Carlo Saporito, fratello di Alberto Saporito nel testo e fratello di Toni nella vita. Questo aspetto ricalca un’interessante intreccio tra realtà e finzione, aspetto fondante dell’opera stessa. Tutto ruota infatti attorno alla denuncia di Alberto Saporito, assieme a suo fratello Carlo, dell’omicidio di Aniello Amitrano (scoparso qualche giorno prima) da parte dei suoi vicini di casa, i Cimmaruta.
Quando poi la polizia non riesce a trovare i documenti, Alberto Saporito inizia a capire che probabilmente aveva sognato tutto. In una comicità disarmante, che come tutte le commedie di De Filippo però ci coglie a riflettere, si svolge l’intreccio della storia. L’accusa di Alberto e Carlo fa emergere aspetti vili e meschini dell’animo umano: i familiari invece di difendersi l’un l’altro – come sottolinea Alberto – credono il delitto possibile e uno alla volta, confessandosi con lui, si accusano di un delitto che non c’è stato ma che sarebbe comunque potuto esserci. Non c’è sodalizio tra loro, ognuno è solo contro tutti. Persino Carlo approfitta della situazione per prendere possesso dei pochi averi del fratello.
Deluso persino dal fratello vedremo quindi un Alberto Saporito indignato e arrabbiato. Ecco lo sfogo finale sulle miserie umane che andrà a culminare nella scena, che conclude l’opera, in cui i due fratelli seduti su due sedie lontane si guardano. In silenzio. La scena dura diversi minuti, un momento carico di tensione che potrebbe essere il preludio ad una parola, una frase, un’azione. Invece tutto ciò che ci restituisce è silenzio. Solo quello, un’assordante silenzio che ci permette di sentire i movimenti dei nostri organi interni. Forse è proprio questo uno dei sensi di quel silenzio: sentire il loro fluire, i battiti del cuore. Incessantemente. Ritornare su noi stessi, e interrogarsi. Un silenzio che anche durante l’opera è emblematicamente personificato nella figura dello zio Nicola che considerando ormai inutile parlare comunicava attraverso una specie di codice Morse, utilizzando però i fuochi d’artificio.
Un silenzio che ha avuto la fortuna di incontrare un pubblico rispettoso, che ha saputo accogliere e affrontare quel silenzio finale senza averne paura, senza rifuggirlo, senza volerlo evitare distraendosi con il proprio smartphone. Come invece era successo qualche giorno prima a Bologna, provocando l’indignazione di Servillo. Ma questa è un’altra storia...
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