“Stranger” - (La sindrome di Stendhal)
di Redazione Picenotime
giovedì 27 novembre 2014
La sindrome di Stendhal, detta anche sindrome di Firenze (città in cui si è spesso manifestata), è una affezione psicosomatica che provoca tachicardia, capogiro, vertigini, confusione e allucinazioni in soggetti messi al cospetto di opere d'arte di straordinaria bellezza, specialmente se esse sono compresse in spazi limitati.
Era più di un’ora che Anna contemplava quel Rothko. Seduta, con le gambe incrociate, alla ricerca dell’intimità con la tela. Era così vicina che non riusciva più a vedere la fine del quadro. Passarono molte persone accanto a lei, non si curò di nessuna. L’effetto magnetico di quel quadro era totalizzante. Ormai alienata era entrata in un’altra dimensione, nel tempo di quel quadro. Nulla più contava, il tempo scandito dallo scorrere dei minuti del suo Rolex non aveva più importanza, ogni futile appuntamento non aveva più valore in quell’attimo.
Continuò a guardare la tela per più di due ore, era ora di pranzo e c’era meno gente; il custode si era allontanato dalla stanza, Anna ora era veramente sola. Il silenzio assordante, le macchie del quadro si corrodevano l’un l’altra e c’era qualcosa nell’espressione di Anna che tradiva una sedimentata sofferenza, una lotta all’interno di se stessa. Stava accadendo qualcosa di imprevedibile: un dialogo muto, inacustico, inudibile, tra Anna e il Rothko. Il suo volto era sempre più cupo, più contorto, il suo dolore inequivocabile. Un impercettibile rumore, il ritorno del custode nella stanza, ridestò Anna come da un incubo che si vorrebbe subito dimenticare. Confusa si alzò, continuando a guardare fisso quel quadro; ma il suo sguardo ora era distratto e smarrito, non riusciva più ad incontrare lo sguardo del suo interlocutore.
Il custode iniziò a guardarla, Anna era una bella e giovane donna. Ne fu infastidita, turbata indietreggiò allontanandosi dal quadro. Si sistemò in fretta i capelli e gli abiti che aveva addosso: una camicia bianca ben stirata, appena aperta sul petto, e dei pantaloni larghi di velluto blu. Fu una reazione istintiva, come se per un attimo si fosse sentita nuda di fronte a quel Rothko. E non voleva essere vista, nella sua cruda nudità, da nessuno, tanto meno dal custode del museo. Così, senza sapere bene cosa stesse facendo, si abbottonò completamente la camicia.
L’attenzione del custode nel frattempo si era allentata, richiamato dal rumore di una scolaresca nell’altra stanza. Anna si ritrovò di nuovo sola, smarrita, inspiegabilmente iniziò a piangere. Fu un pianto silenzioso. Mi immagino il pianto di una Madonna, che deve essere necessariamente così: lieve, impercettibile. Il suo viso era fisso, immobile... ora non c’era agitazione sul suo volto: le lacrime cadevano come se avessero vita propria, totalmente slegate dal resto del corpo. Come se quelle lacrime avessero bisogno di cadere da tempo, come se a loro fosse stata da sempre preclusa l’uscita. Così inondarono quel suo volto illuminato. I suoi grandi occhi celesti erano ora maledettamente limpidi, come se avessero avuto una sorta di redenzione da qualcosa che ancora nemmeno lei ri-conosceva. Era in piedi, un bagno di sudore, tremava... sentì dietro di sé una presenza, si girò lentamente. I suoi occhi ora scrutavano la stanza, non c’era nessuno. Era sola, con il suono muto di quei quadri che la interrogavano, la giudicavano, le chiedevano “perché”.
Ritornò a guardare la tela con la quale aveva interrotto un dialogo... adesso aveva più paura: aveva già aperto una porta del quadro e di se stessa, aveva paura di aprirne un’altra. Ancora in estasi, con lo sguardo fisso sulla tela, indietreggiava lentamente come sfuggendo da un pericolo insopportabile ma non imminente. Si scontrò con un uomo che era dietro di lei, chissà da quanto. Eppure poco prima non c’era nessuno. O forse era passato del tempo, ma Anna non lo sapeva. Anna non sapeva più niente. Debole e spaventata, Anna, scontrandosi con l’uomo, stava perdendo i sensi...lentamente... silenziosamente... Ma si aggrappò a lui, come per salvarsi da quel naufragio. Si aggrappò così forte che fece cadere anche l’uomo con sé. Poteva abbandonarsi passivamente a lui e non cadere. Ma lei voleva cadere, ne aveva bisogno. Era come se volesse affondare, ma non da sola.
Quando si risvegliò era su un prato, la luce era così forte che non le permetteva di vedere nulla. Si coprì dal sole per vedere meglio e vide un uomo accanto a lei che la guardava: il suo sguardo era penetrante ma non invadente. Uno sguardo vergine di qualsiasi domanda. L’uomo le sorrise. Anna si sentiva più serena, distesa sulla soffice erba bagnata dalla rugiada. Si voltò verso l’uomo che le era accanto, non sapeva chi fosse, né se fosse l’uomo a cui si era aggrappata mentre cadeva. Anna non si chiese nulla di tutto questo perché una risposta proveniva dal suo sentire: accanto a quell’uomo sentì la stessa sensazione che aveva provato nel museo nell’avvertire una presenza che si manifestava in un’assenza. Come se avesse sentito anticipatamente l’arrivo della straniero. Ed era arrivato proprio nel momento in cui lei forse ne aveva più bisogno. Anna ricambiò il sorriso e sussurrò: ”Ciao, straniero”.
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